
30 Mag LA FASE DELLA SPERANZA – Mare Aperto N.2 Nuova Serie
Dopo l’inatteso manifestarsi della pandemia virale che ha contrassegnato la prima metà del 2020 e le sue nocive conseguenze sui mercati finanziari e sull’economia reale (cui è stato imposto in molti casi un improvviso arresto cardiocircolatorio di due mesi e più) tutti si interrogano su cosa ci aspetta nel breve e medio termine, per valutare come muoversi.
Prima di addentrarci nelle numerose tesi che vengono formulate intorno ai destini economici dei vari paesi conviene tuttavia porsi una domanda: il virus ha agito come un attentatore malvagio e imprevedibile contro il corpo sano dell’economia globale in fase espansiva, oppure il più lungo ciclo di ripresa dopo la seconda guerra mondiale già manifestava segni di stanchezza ed esaurimento di cui la pandemia è stata solo il rivelatore?
Propendiamo piuttosto per la seconda ipotesi, come ci suggeriscono parecchi dati del 2019 relativi all’economia reale: già da tempo sia per gli Stati Uniti, sia per l’Europa e per il Giappone si parlava di una marcata decelerazione degli investimenti aziendali e dell’attività del settore manifatturiero. L’esaurirsi del dinamismo negli indicatori anticipatori del ciclo economico (ore lavorate, vendite al dettaglio, inflazione, e soprattutto gli indici di salute aziendale forniti dai responsabili degli acquisti, i cosiddetti PMI o Purchasing Managers Indexes) mostrava l’inaridirsi di un lungo periodo di moderato ma costante aumento del PIL globale, artificialmente sospinto soprattutto dall’azione delle autorità monetarie, sotto la guida della Federal Reserve degli Stati Uniti, de facto la banca centrale di riferimento per il mondo intero.
Negli undici anni che vanno dal marzo 2009 al Febbraio 2020 l’attività economica è ripresa senza infamia e senza lode a prezzo di un enorme aumento del debito, disponibile a prezzi irrisori dati i tassi bassissimi imposti dalle banche centrali, e di una rimarchevole diminuzione dello stock di capitale di rischio, basti pensare all’enorme fenomeno del riacquisto di azioni proprie da parte delle aziende quotate negli USA. Questa dinamica gigantesca, spesso di natura squisitamente finanziaria, ha senz’altro contribuito ad alzare il prezzo delle azioni che ne sono state oggetto, ma, in proporzione, ha inciso molto meno sugli utili aziendali e, priva di influenza sugli investimenti in conto capitale, non ha contribuito in alcun modo all’aumento della produttività. Ancor prima del manifestarsi della pandemia avevamo pertanto squilibri significativi nell’assetto del sistema produttivo, che è arrivato al capolinea del ciclo economico gravato da debiti più alti della media, da capitali di rischio più esigui, da produttività piatta e da trend demografici in ulteriore rallentamento.
Del resto, l’impatto devastante che la chiusura temporanea di quasi tutte le attività economiche ha avuto sull’occupazione degli Stati Uniti si può in parte spiegare con la condizione di fragilità di molte aziende, specialmente di quelle che operazioni di riassetto aziendale tramite private equity hanno oberato di un debito che nell’attuale situazione di tensione si è rivelato insostenibile. I recenti fallimenti delle catene di vendita al dettaglio e di noleggio auto (Neiman Marcus, Jack Drew, JC Penney, Hertz solo per citare i nomi più noti) sono i primi esempi di una serie che potrebbe forse diventare un lungo elenco, con nomi ancora più significativi, a meno che le misure di contenimento dei danni e di stimolo alla ripartenza che le autorità monetarie ancora una volta hanno gettato nell’arena, coadiuvate questa volta da una massiccia e coordinata azione della politica (grande assente invece negli anni trascorsi dal 2009 ad oggi), non riescano ad operare in extremis il portento.
Per descrivere la compresenza dell’azione concordata delle autorità politiche americane e di quelle monetarie è stata coniata l’espressione “Freasury” – sintesi di FED e Treasury – possibile emblema per gli anni a venire di una commistione tra responsabilità della banca centrale e responsabilità della politica che sarebbe suonata anàtema solo pochi mesi fa. L’eccezionale gravità della situazione giustifica probabilmente il ricorso ad azioni concertate di tutte le autorità che hanno voce in capitolo sull’economia, ma insieme solleva dubbi sulle possibili conseguenze in tema di autonomia decisionale della banca centrale americana e della sua proclamata indipendenza dagli organi politici.
Ma al di là dei fondati dubbi sulla perdita di autonomia della FED nei confronti del potere politico, occorre dire con un certo sollievo che l’azione di contrasto alla deriva dell’attività economica è riuscita a generare una fase di rinnovato ottimismo e la speranza di una ripresa. Non solo l’indice Standard & Poor’s 500 ha ripreso circa il 70% di quanto aveva perso dopo il 19 Febbraio, ma ancor più il mercato delle obbligazioni ad alto rendimento, che rischiava il collasso, è tornato ad essere liquido ed ha dato vita a numerose nuove emissioni.
Sull’esito di questa “guerra totale” alla recessione i pareri ovviamente divergono. Le tesi più ottimistiche appartengono al perimetro dei sostenitori dell’attuale Presidente USA, i cui collaboratori accreditano le promesse elettorali del loro beniamino pensando alla ormai prossima data del 3 Novembre 2020 in cui si disputerà la sfida con Joe Biden. Peter Navarro e Larry Kudlow, due tra i più noti personaggi dello staff di Trump, immaginano una fase di ripresa già prima dell’appuntamento del voto, o, con miglior cautela, non più in là dei primi mesi del 2021.
All’estremo opposto si collocano una serie di economisti e investitori di grande fama, che propongono una visione decisamente meno rosea, e fondano le loro tesi su valutazioni fattuali di solido spessore. Tre sono le principali argomentazioni proposte da questi economisti contro l’ipotesi di una ripresa veloce: a) la FED, per quanto potente, non riuscirà ad aiutare tutti i soggetti in difficoltà: il numero e la dimensione dei fallimenti sarà imponente e avrà effetti domino sugli investitori e sulle banche, che dovranno classificare come “crediti inesigibili” molti prestiti; b) il riassorbimento dei disoccupati, molti dei quali non sono incentivati a tornare subito al lavoro dato che i sussidi elargiti dal governo superano i loro stipendi precedenti, non sarà portato a compimento certamente in tempi brevi; l’assenza di una percentuale più o meno alta di occupati peserà sul PIL e sui consumi per un periodo di due-tre anni; c) la rottura temporanea delle catene di produzione che partivano spesso dalla Cina ha evidenziato la loro fragilità e l’abnorme dipendenza dell’Occidente da un solo mega-produttore di materiale di base per l’industria farmaceutica e per molte altre filiere essenziali: complice la pessima fama che la Cina si è guadagnata con la gestione dell’emergenza Coronavirus, gli Stati Uniti e molte cancellerie del mondo industrializzato lavoreranno per dislocare altrove i luoghi di produzione all’estero se non proprio per riportarli nei patri confini, dando così necessariamente incremento ai costi e alle rivalità tra nazioni. Infine, ed è forse il punto più pregnante di chi prevede deflazione e tassi negativi, viene rilevato come le aziende di tutto il mondo, ma in particolare quelle statunitensi, abbiano accumulato una quantità di debito tanto eccessiva che ne è derivata una bolla che inevitabilmente scoppierà. Per giunta, le misure adottate di recente sono contrassegnate tutte dalla creazione di ulteriore debito a carico delle generazioni future. Una sorte analoga a quella del Giappone degli ultimi vent’anni attenderebbe dunque gli Stati Uniti secondo questa pessimistica previsione.
Tutt’altro che rosea tra i maggiori gestori la valutazione del mercato azionario: “è il peggior mercato mai visto quanto a rischio/rendimento” e “secondo soltanto a quello del 2000” per i prezzi elevati.
Risulta davvero difficile stabilire ora, in una situazione così nuova, caratterizzata da processi di trasformazione tanto veloci ed imprevedibili , e con tanti fattori che interagiscono senza sicure predizioni sulle loro dinamiche, quale tendenza alla fine sarà quella prevalente. Sulla base dei dati di cui possiamo disporre ora, preferiamo evitare proclamazioni consolatorie di una presunta verità che starebbe nel mezzo circa la possibilità di navigare nel prossimo futuro tutto sommato serenamente. Propendiamo a pensare invece che i rappresentanti della lettura pessimista possano schierare argomenti convincenti a favore delle loro tesi, dato che se è perdente “combattere contro la FED”, che ha ancora molte munizioni da sparare, è pur vero anche che i segnali provenienti dalle obbligazioni statali USA sono piuttosto chiari: i tassi di rendimento continuano a scendere, e si andrebbe quindi verso i tassi negativi anche in America, e verso livelli di indebitamento tali da causare con buona probabilità deflazione in un primo tempo e in un secondo tempo inflazione, quale che sia il risultato delle elezioni presidenziali. Vedremo nei prossimi mesi.
Merita concludere con un paio di notazioni relative all’Europa e all’Italia. Partiamo da una notizia molto positiva, che riguarda la politica fiscale europea: parliamo naturalmente della proposta di Francia e Germania di una linea di aiuti dell’importo di € 500 miliardi erogata direttamente dall’Unione Europea per venire incontro alle necessità dei paesi che più duramente sono stati colpiti dalla pandemia, principalmente Italia e Spagna. La Commissione presieduta da Ursula von der Leyen l’ha fatta propria e rilanciata affiancando ai 500 miliardi di erogazioni a fondo perduto altri 250 miliardi di prestiti, e denominando l’iniziativa “Next Generation EU”. Al di là delle cifre proposte, in verità limitate in proporzione al PIL dell’intera Unione, si sfidano così in un colpo solo tre tabù : la possibilità di emissione di quasi-Eurobond, il principio di proporzionalità dei sussidi parametrato sui contributi versati e il principio della tassazione esclusivamente nazionale. Sappiamo che i cambiamenti importanti nell’Unione Europea avvengono solo in circostanze critiche, e anche stavolta ne abbiamo la riprova. Ma la novità si fa ancora più interessante se si avvicinano a “Next Generation EU” le cifre di altre iniziative che mettono a disposizione dei mercati europei i 1.100 miliardi della Multiannual Financial Framework e i 540 di SURE/ESM Pandemic Crisis Support/EIB. Una cifra totale di 2.400 miliardi circa suscita entusiasmi e riorientamenti di investitori internazionali; facciamo voti che a tante speranze seguano i fatti e che molto, se non tutto, delle succose proposte sul tavolo superi la fase dei negoziati, che richiedono come è noto l’assenso di tutti i membri della UE.
In questo panorama frizzante sarà bene per l’Italia sfruttare con attenzione ed abilità le sue occasioni. Se il buongiorno si vede dal mattino non abbiamo molti elementi per essere ottimisti (vedi ulteriore finanziamento miliardario alla decotta Alitalia) ma chissà che la posta in gioco non procuri nuove e migliori energie al governo del paese.
Il professor Luca Ricolfi, attento studioso della società italiana, ha ipotizzato un triplice rimedio per lo choc da pandemia: taglio drastico delle tasse per tre anni, sospensione delle regole relative agli appalti e ai permessi necessari per avviare attività economiche (come per il ponte Morandi), saldo in 30 giorni dei debiti verso fornitori della pubblica amministrazione. Una terapia adatta al problema che stiamo vivendo; e speriamo davvero che l’egregio Ricolfi trovi ascolto tra i decisori pubblici.
CONCLUSIONI
Non vediamo attualmente ragioni cogenti per cambiare la nostra analisi proposta qualche settimana fa, ovvero che ci aspetti un periodo molto travagliato. Il rialzo dei titoli azionari USA avviene in un mercato ancora ribassista per ragioni strutturali: gli utili aziendali sono in decelerazione, non ci sono guadagni di produttività e la partecipazione della forza lavoro potenziale è in discesa. Il motivo principale per cui le azioni salgono, ed è così dall’inizio del 2019, è l’enorme liquidità immessa nel sistema da FED, BCE e altre banche centrali; questa liquidità non va per ora direttamente a vantaggio di investimenti produttivi e di miglioramento di prodotti e servizi, ma solo a gonfiare la bolla dei titoli azionari e obbligazionari.
Conviene, riteniamo, giocare in difesa privilegiando dollaro, oro e, se proprio si ritiene necessario avere una percentuale di azionario, meglio averla nei settori di largo consumo, cure mediche (biotech e pharma), immobiliare e utilities.
Soprattutto occorre prudenza, capacità di selezionare le aziende dotate di bilanci solidi e vantaggi competitivi, e la pazienza di attendere, perché la legge di gravità, che vige anche in economia e punisce le aziende inefficienti e prive di capacità per prosperare, verosimilmente mostrerà ai mercati che nemmeno le banche centrali possono sfidarla.
Stelvio Bo
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